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Intervista a Jan Ardui

di Simonetta Lombardo

Un coaching tagliato su misura, che adopera tutto quello che è presente nella personalità e nella storia del cliente, non getta via nulla, utilizza sia gli strumenti di eccellenza che gli ambiti di fallimento, anche perché “a volte in nulla si è tanto bravi quanto nel fare errori”. È un po’ come un ottimo cuoco Jan Ardui: per fare un grande piatto usa ciò che trova in dispensa; fuor di metafora, quel che c’è nella mente e nell’esperienza del suo coachee, la luce e l’ombra del suo speciale modo di essere. Ed è in quest’ultimo aspetto, nella capacità di accettare e servirsi di una parte “ombra”, che si concentra una delle maggiori peculiarità del coaching di Ardui.

Poi, nella cucina del coach e trainer belga, ci si impara a muovere nel territorio ambiguo del cambiamento e della stabilità, della complementarietà degli opposti, della ricerca di maggiore performance come maggiore capacità di essere se stessi e di entrare pienamente nei propri panni. Paradossi solo apparenti, come spiega nei suoi corsi e come dimostra la pratica della sua vita professionale.

È dal 1999 che Ardui ha cominciato ad affinare un suo specifico modello di intervento in azienda che combina psicologia, pensiero sistemico e qualche traccia di filosofie orientali. Ed è per parlare di questo processo di coaching – un metodo che viene proposto con successo nelle maggiori aziende internazionali oltre nei corsi di formazione professionale – che lo abbiamo incontrato a Roma, in una pausa dai suoi impegni, per una lunga intervista che anticipa i contenuti di un libro sugli stessi temi.

Quali sono i cardini del suo modello di coaching? Si possono riassumere in breve?

Prima qualche precisazione sugli obiettivi. Ci sono dei punti universalmente riconosciuti nel coaching: si tratta di un processo in cui un esperto aiuta un’altra persona a migliorare la sua performance in un campo specifico. Un livello più alto di performance si raggiunge quando un individuo o un team diventano capaci di maggiori prestazioni: di vincere più spesso, nel caso di una squadra sportiva, o di vincere più facilmente; di raggiungere un risultato più ambizioso o di raggiungerlo con ulteriore scioltezza.

Ci sono però altri elementi indispensabili da aggiungere per poter parlare di coaching, a cominciare dalla definizione del campo di intervento specifico, cioè del contesto, cui si aggiunge l’identità di ruolo. Nel calcio, insomma, alleni i giocatori, nel business i manager, nella scuola gli insegnanti e in campo psicoanalitico i terapeuti, non genericamente delle persone in tutti i campi della loro esistenza.
Il coaching è quindi un processo finalizzato a portare un individuo o un team a un più alto livello di performance, anzi a un livello di eccellenza. Non basta limitarsi quindi ad accrescere le strategie già esistenti, quelle che le persone già utilizzano. Arrivare a un livello più alto significa approfondire l’allineamento della persona. In altre parole vuol dire aumentare la capacità di essere più completamente se stessi, di agire secondo quella che potremmo chiamare la propria natura.
L’essenza del modello di coaching che utilizzo nella mia vita professionale e che insegno nei miei corsi è già in questa sintesi: arrivare a un più alto livello di performance coincide con la capacità di sentirsi più rilassati. Per l’esattezza, per diventare migliore hai la necessità di forzarti per diventarlo e allo stesso tempo hai bisogno di fare quello che senti più naturale.

Suona come un paradosso: forzarsi a essere se stessi.

Già, in una logica riduttiva sembra che stiamo parlando di due termini polari, antitetici. Nella realtà il coachee non sente questo processo come un conflitto, ma come una connessione generativa. Del resto basta chiedersi che cos’è l’eccellenza. Quando qualcuno è veramente bravo in un’attività è allo stesso tempo molto disciplinato e molto libero. Il coaching di successo ha bisogno di toccare la combinazione ottimale di questi due elementi, dello sforzo e dell’essere naturali, elementi apparentemente impossibili da combinare. Questa è quella che oggi definisco come la dinamica delle complementarietà generative.

Forse può essere utile qualche esempio. Anche Nieztsche esortava a “diventare ciò che sei”, ma nella pratica del coaching non appare così scontato.

La complementarietà generativa è quella che si crea andando in bicicletta. Per farlo è necessario combinare due polarità apparentemente impossibili da mettere assieme, il movimento e la stabilità. È perché ti muovi che sei stabile, ma le due cose sono viste come opposte. Così, la gente nelle aziende si lamenta che tutto va sempre molto veloce e non si riesce ad arrivare a un punto di stabilità, come se le due cose non potessero andare insieme. In verità tutte le società di successo devono essere guidate come una bicicletta, in un equilibrio instabile e proficuo.

Quando fai coaching, e quindi vuoi portare il tuo cliente a un maggiore livello di eccellenza, parti dall’idea che la persona o il team possano fare meglio, che abbiano quindi bisogno di cambiare le cose. Allo stesso tempo il messaggio che dai al coachee deve essere: quello che c’è, quello che fai facilmente e naturalmente è già abbastanza.

Stiamo quindi parlando di un confine sfumato, come quello di un equilibrio in movimento. La domanda di cambiamento che proviene dal coachee e che è alla base della scelta di fare un coaching è centrata sul fatto che ciò che è presente non basta. Un coach deve quindi certamente rispondere con serietà a questa richiesta, deve lavorare su quello che non è abbastanza buono, eccellente o che addirittura ancora manca. Ma contemporaneamente, deve essere focalizzato su quello che c’è naturalmente e su come la persona può utilizzarlo. È la fusione di due realtà da padroneggiare simultaneamente: avere presente quello che manca e può essere aggiunto e allo stesso tempo concentrarsi su quello che già naturalmente è presente e su come si può utilizzare al meglio.

Inoltre è necessario sviluppare una sorta di saggezza come coach nel sapere che ci sono cose che possono cambiare e quindi bisogna lavorare per farlo, e cose che non possono mutare e quindi bisogna accettarle. Devi saper operare la distinzione tra le due, sapendo che agisci in una sorta di zona indistinta. Per cambiare occorre utilizzare quello che già c’è, e utilizzare quello che è già presente significa non cambiare: un paradosso splendido e vitale, sul cui limite occorre saper giocare. Come si fa ad utilizzare al meglio quello che viene percepito dal cliente o dal suo ambiente come un difetto, una mancanza, un problema?

Faccio uno degli esempi più semplici. La timidezza è un ostacolo per un leader? Più che rispondere scolasticamente alla domanda, per un coach è essenziale saper trovare assieme al cliente la strada per usare questa qualità nell’esercizio della leadership.
Cos’è nei fatti la timidezza, e cosa produce? Una persona timida ha una sensazione sgradevole quando riceve troppa attenzione su di sé. Può un leader utilizzare questa caratteristica, se la possiede? Sicuramente sì, ad esempio portando con forza l’attenzione sugli altri, verso il suo team. Nonostante la sua apparente semplicità, è proprio questa la strategia che i leader timidi di fatto utilizzano. Il presupposto profondo per questo tipo di modello di coaching è che tutto è utile, può essere usato, riciclato nel sistema: sia quello che giudichiamo a priori come “luce”, parte positiva ed efficiente, che quella che siamo portati da varie condizioni sociali e personali a pensare come “ombra”, l’ostacolo apparente in cui spesso si trova la maggior parte della forza.

Non ci sono insomma caratteristiche negative a priori per un manager o per un leader: c’è gente eccellente ed estremamente pigra, che sa usare la pigrizia per operare ad altissimi livelli, ad esempio non facendo nulla che non sia necessario fare.
In altre parole, tutto torna utile. È un concetto semplice in fondo, ma la nostra mente è abituata a pensare che qualcosa non funziona e quindi dobbiamo a eliminarla invece di chiederci: come posso utilizzarla? L’elemento chiave di questo modello di coaching è proprio questo. Non butti via niente, utilizzi tutto quello che c’è.

Il coachee ha bisogno di cambiamento, il coachee ha bisogno di essere maggiormente se stesso. Ma nella pratica del coaching come si ottiene questa doppia visuale?

Attivando appunto le due prospettive. Focalizzandoti su quanto il cliente sta facendo di sbagliato, su quello che la persona non vede o non coglie, perché c’è sempre una forte associazione con quello che manca ed è quindi difficile dall’interno del sistema vedere quel che non c’è. Come coach devi essere capace di far confrontare la gente con i propri limiti, indagando su quel che fa, analizzando gli errori, quello che succede o che non succede quando non raggiunge gli obiettivi. Occorre quindi definire cosa deve aggiungere, gli strumenti, le tecniche. E soprattutto non bisogna lasciare al cliente la possibilità di fuga dalle responsabilità, lasciarlo indugiare nell’attribuire la colpa agli altri, all’ambiente di lavoro, alla società. Occorre mettere la persona di fronte alle proprie personali responsabilità.

A questo punto arriva la sfida reale, che consiste nel cercare quello che il coachee fa perfettamente bene e poi canalizzare queste risorse. Come è possibile che la stessa persona che è di fronte a te in un momento di evidente difficoltà sia poi la stessa che organizza e guida i meeting aziendali, il suo team di collaboratori, i rapporti con i capi? Cosa fa, chi è la persona che raggiunge quel livello di performance? Come abbiamo già detto, tutto quello di cui c’è bisogno c’è già, non occorre nessun extra.

Se come coach sai padroneggiare queste due polarità puoi raggiungere risultati straordinari. E del resto siamo tutti capaci di scendere a patti allo stesso tempo con prospettive apparentemente opposte. A esempio come genitori, nel rapporto con i figli sappiamo e dobbiamo maneggiare la combinazione tra amore incondizionato e severità.

Complementarietà generativa, quindi. È questo il punto chiave del suo modello di coaching?

Gli elementi che fanno la differenza, per quello che riguarda sia la mia pratica diretta che il modello teorico che sono venuto elaborando, sono almeno altri tre: il principio organizzatore, lo spiraling e il feedback riflessivo.

Proviamo a spiegarli.

Il principio organizzatore, il PO, è l’identità dell’individuo o dell’azienda: ogni persona, gruppo o sistema ne ha uno. Si tratta dell’insieme degli elementi fondamentali, tanto importanti che, se non ci fossero, quel sistema non esisterebbe. Ritorniamo di nuovo alla bicicletta. In questo caso il principio organizzatore è la relazione tra movimento e stabilità.
Il principio organizzatore è in sostanza una dinamica stabile e ripetitiva che ha il compito o la capacità di organizzare un sistema. Ogni attività – come ogni persona ‐ ne ha uno. Qual è l’essenza del cucinare? Qual è l’atmosfera che si respira a casa di una persona? Saper definire tutto questo è un altro modo per cogliere il principio organizzatore. Anzi, spesso lo percepiamo con la nostra mente inconscia e quando ci viene chiesto di spiegarlo non siamo in grado di farlo. L’atmosfera di una casa è collegata a tutto quello che è presente, senza distinzioni: è il linguaggio della totalità. Individuando il principio organizzatore, nei fatti troviamo la complementarietà generativa. E non si tratta di una semplice relazione ma di una vera e propria dinamica.
Ma per cogliere il principio organizzatore è necessario lavorare con lo spiraling e il feedback riflessivo. Il primo è un processo in cui il coach si permette di non conoscere, di non sapere: un momento di esplorazione aperta, sostanzialmente a 360 gradi sull’esperienza e la personalità del coachee, in cui, attraverso una ricerca a vasto raggio, il coach si permette di abbracciare la maggiore complessità possibile in quel campo o in quel contesto, senza escludere nessuna possibilità a priori. Così il feedback riflessivo, cioè né positivo né negativo, è una maniera per individuare quel che c’è senza nessun giudizio, senza avere un’idea preconfezionata su quello che ci dovrebbe essere.

A cosa serve, in questo ambito il principio organizzatore? Abbiamo detto che il coaching è sempre relativo a un contesto e a un’identità di ruolo, mentre il principio organizzatore è l’identità profonda e quindi transcontestuale.

Diventare quel che si è significa arrivare più vicini al proprio principio organizzatore. Un albero non può che essere un albero, noi umani abbiamo sviluppato una consapevolezza che ci ha separati dal flusso naturale. È un concetto, quello del principio organizzatore che rispecchia totalmente il pensiero di Gregory Bateson (1): è il pattern che connette, e che connette anche cose incredibilmente lontane tra di loro. Inoltre la ricerca del principio organizzatore permette al coachee di fare un una grande quantità di nuove connessioni. Il PO contiene l’eccellenza ma anche i limiti di una persona, e infatti nel coaching li modelliamo entrambi e cerchiamo la connessione tra i due aspetti.

Vuole raccontarci in modo anche più particolareggiato, step by step, le fasi del suo modo di fare coaching?

Comincio con il contratto che si stipula tra coach e coachee: pensiamo di raggiungere uno specifico risultato in un tempo dato, e queste saranno le evidenze del fatto che lo abbiamo raggiunto. Includo anche dei “testimoni” che possano certificare tutto questo, in generale chi in azienda ha richiesto il coaching. Perché se sei un coach sportivo l’evidenza è chiara: se prima perdevi le partite e ora le vinci vuol dire che hai fatto bene il tuo lavoro. In altri ambiti non è così chiaro e diretto.

L’inizio del lavoro consiste molto nell’osservare, nell’analizzare. L’allenatore di calcio si prende il suo tempo per vedere come gioca la squadra, per analizzare come funziona il sistema. È il corrispettivo della fase di spiraling, in cui tra l’altro è importante aprire prospettive inedite per scuotere la stabilità del sistema stesso. Gli allenatori qualche volta proibiscono alle star di entrare in campo. L’importante è non dare nulla per scontato, non ci sono tabù né – come si dice in fiammingo – ‘case sacre’, luoghi intoccabili. E questo per due motivi: per aprire un sistema che spesso si è sclerotizzato e per creare una forte credibilità per il coach. Dimostra, in altre parole, che può cambiare le cose, che ha il potere di farlo, che è libero. È per questo che gli allenatori sportivi generalmente si avvicendano dopo un paio d’anni, per evitare che si confondano con il sistema. Se sei troppo dentro, non sei più capace di aprire nuove prospettive e quindi di andare a nuovi livelli di performance.

Suona come la descrizione di un forte scossone al sistema di credenze e di riferimenti del coachee.

Per creare un contesto di apprendimento – che è sostanzialmente quello in cui si muove il coaching – serve creare una certa quantità di frustrazione, talvolta uno stop, un salto per arrivare a un nuovo livello di competenza. Allo stesso tempo, non si può essere troppo distruttivi, altrimenti non si arriverà a nessun risultato. In altre parole occorre destabilizzare il sistema esistente, rompere le vecchie regole, conducendo il sistema a un principio organizzatore più complesso: solo così si migliorerà il lavoro.
Nel coaching, attraverso il processo dello spiraling, rompi qualche connessione esistente e soprattutto rendi visibile quello che non era ancora visibile. In altre parole porti il sistema a un punto in cui è impossibile che rimanga nella vecchia configurazione.
Ricordiamoci che più complessità può essere riconosciuta e governata dal sistema, maggior livello di eccellenza diventa possibile. Quando metti sul tavolo quello che era nascosto sotto il tappeto permetti una maggiore complessità. Se cerchi solo il principio organizzatore dell’eccellenza, tagli troppi elementi importanti. I limiti fanno parte del sistema, ma il sistema non li prende in considerazione.
Per migliorare la tua performance devi imparare a essere più te stesso. E più complessità sei in grado di abbracciare, più sei te stesso.

Performance e allineamento, quindi, sono nel suo modello un binomio inscindibile. Ma non ci sono leader o manager che funzionano benissimo escludendo una parte di sé?

Ce ne sono sicuramente. Ma qui entra in campo la differenza tra eccellenza e performance. Se c’è allineamento c’è continuità della performance e quindi eccellenza. Nella performance senza allineamento è insito il seme della distruzione: diventa una specie di doping psicologico. Per riassumere, gli step del metodo di coaching che sono venuto elaborando nel tempo sono: spiraling, toccare il principio organizzatore fatto di eccellenza e limiti. A questo punto come coach sei pronto a pensare a cosa aggiungere per migliorare la performance. Ciò che si aggiunge non è mai un “devo”. Questo processo non può essere basato sul’idea che se non cambi non diventi performante, non può essere fondato sulla dittatura del cambiamento.

Per capire meglio, se ho paura non la devo tagliare via, ma capire come usarla per diventare più capace, più esperto, migliore in quello che faccio.
Il percorso per andare da qualche parte deve essere coerente con il luogo dove devi arrivare. Non si fa la pace con la guerra. Che significa, in fondo? Che tu sei già quello che vuoi diventare, che già possiedi quelle caratteristiche. Puoi avere solo quello già hai. Judith DeLozier dice che la Pnl o il coaching sono una maniera per riconnettersi a quello che si è dimenticato.
C’è una storia che posso portare come esempio. Ho fatto un coaching con una manager di una grande azienda automobilistica che aveva la tendenza a dare poco di sé nel suo lavoro. Era estremamente brava a cominciare un’attività e a delegarla. Durante il processo di coaching abbiamo trovato un collegamento che era assieme metaforico e pratico: era esperta nel preparare stuzzichini per gli aperitivi. Cose piccole, molto raffinate, fatte per lasciarti con la fame. Questo era contemporaneamente lo schema ricorrente e il principio organizzatore della sua vita: a questa donna non piace fare grandi cose. Attraverso questa scoperta, è riuscita a capire anche perché era abituata a perdere subito interesse in quel che faceva, e anche perché molta gente la conosceva ma lei era di fatto poco visibile nell’azienda.
Cosa doveva aggiungere? In primo luogo la consapevolezza. Prima dell’esperienza del coaching il meccanismo era: “non voglio farlo, fallo tu”. Dopo: “questo è quello che voglio fare. Il resto penso che lo farai meglio tu”. Troppo sottile? Sono le piccole differenze a fare la differenza.
Un altro caso: un top manager di una banca, un uomo molto ambizioso, estremamente mal visto nell’azienda per la sua arroganza ed incredibilmente capace di fare proposte precise ai clienti facendoli sentire i re dell’universo. Ho realizzato con lui che a essere importanti non erano i clienti, ma la sua capacità di farli brillare. Le persone reali, sia i clienti che i colleghi, non avevano per lui nessuna importanza. Il suo schema personale gira attorno all’idea di essere allo stesso tempo al servizio e totalmente opportunista. In questo caso come in tutti gli altri, non c’è stato bisogno di cambiare nulla, solo di diventare capaci di servirsi di quello che già c’era.

Da dove ha preso ispirazione per elaborare questo modello di coaching?

Ci sono almeno tre fonti diverse. In primo luogo c’è il background della gestalt, dove ci sono tracce del concetto del principio organizzatore, dello “stare con quel c’è”, della necessità di confrontare la gente e associarla. La Pnl, poi, è stata utile soprattutto in due elementi: nel modo di modellare l’esperienza soggettiva, di capire come la gente è capace di fare quel che fa, e nella consapevolezza che i problemi si risolvono solo aggiungendo risorse nel sistema e non eliminandone. La principale fonte di ispirazione è stata però per me il lavoro di Gregory Bateson. Il pattern che connette è il suo modo per parlare del principio organizzatore, il coaching è di fatto uno strumento per cercare il pattern, per trovare le similarità. Di mio ci ho messo la fascinazione e la curiosità di sapere come funziona la gente, e anche la disponibilità a stare nella non conoscenza, l’abilità a perdersi, la volontà di non fare compromessi accettando tutta la complessità.

Il lavoro di modellamento dei manager HP che ho fatto nel 2000 è stata un’eccezionale ispirazione per il coaching, ne ho tirato fuori tra l’altro l’idea che l’eccellenza è in relazione con la disciplina e con la libertà, un altro degli elementi chiave del mio modello. E inoltre ho capito lì che i leader possono maneggiare nello stesso tempo prospettive differenti, punti di vista apparentemente opposti. So che siamo vicini al buddismo zen, ma si tratta di un’ispirazione non attiva, potrei dire non funzionante.

Quanti sono a questo punti in Europa i coach che fanno riferimento a questo modello nella loro attività?

Ho fatto da trainer a circa 200 persone, soprattutto in Francia, Belgio e Italia, ma non so quante stiano effettivamente utilizzando questo processo. Quello che posso dire con sicurezza è che il modello si sta sviluppando. Penso che sia essenziale sviluppare il coaching dei gruppi, c’è da lavorare ancora sul concetto di principio organizzatore. E poi vorrei passare a integrare nel processo anche una specifica attenzione all’analisi degli hobby, un ambito dell’attività personale in cui ognuno esplica al massimo la sua libertà ma mette anche un incredibile sforzo di disciplina…

1) Gregory Bateson (1904 – 1980), antropologo, sociologo, linguista e studioso di cibernetica britannico, è uno dei più importanti pensatori del ‘900.